La casa plurale
Elementi per ripensare la dimensione residenziale urbana e per impostare adeguate politiche dell’abitare
LEGGI GLI ALTRI CONTRIBUTI DELL’INCHIESTA “LE CASE E LA CITTA’ AI TEMPI DEL CORONAVIRUS”
Tra i molti impatti che sollecita, l’emergenza Covid-19 sembra esporre le nostre società ad una forte estensione dei gruppi sociali vulnerabili e ad una fragilizzazione delle condizioni abitative. Questo avviene sullo sfondo di un mercato del lavoro flessibile e segnato dall’incertezza dei redditi, con elevati costi della vita e delle abitazioni soprattutto in quelle città, come Milano, più attrattive sul piano occupazionale. Una nuova dimensione dell’abitare, sia pubblica che privata, si profila quindi all’orizzonte come necessaria, proprio a partire dalla fragilità che stiamo vivendo e che ci porta ad assumere, come architetti, rinnovate responsabilità.
Oltre lo spazio domestico
Mentre l’attuale emergenza sta modificando radicalmente esperienza e fruizione delle città, si è diffusa la consapevolezza che questa condizione possa ripetersi in futuro, con la conseguente necessità di un’urgente riorganizzazione delle vite di ciascuno. Le forme di segregazione indotte dallo stato emergenziale stanno fortemente divaricando la forbice sociale a discapito delle classi più disagiate, costrette a condividere diverse esistenze in pochi metri quadri. Se lo spazio pubblico, infatti, sottratto ad un uso sociale adeguato, sembra contrarsi entrando forzatamente nelle mura domestiche (anche attraverso la sua continua ricostruzione virtuale), lo spazio interno pare dilatarsi a coinvolgere azioni sempre più comuni, legate ad una nuova dimensione condivisa dell’abitare, come nelle suggestioni lecorbusieriane dell’immagine di copertina. Questo processo di simultanea contrazione/dilatazione dello spazio diviene un parametro importante per misurare la resilienza e la potenzialità di adattamento dei luoghi dell’abitare in periodi di emergenza, mettendo in luce le criticità delle tradizionali forme abitative a fronte della nuova condizione.
Un cambiamento di rotta
Per evitare il rischio che le nostre città siano sempre più luogo delle disuguaglianze (come argomentato da Giovanni Maria Flick nella nostra intervista), il nostro impegno dovrà rivolgersi in tre direzioni interagenti: progettare interventi in campo abitativo a supporto d’individui e famiglie che devono fronteggiare la riduzione o la scomparsa delle proprie fonti di reddito; riportare le abitazioni ad essere intese come fattore chiave nell’ottica dello sviluppo personale e collettivo e non solo come fonte d’investimento finanziario; ridisegnare le politiche abitative pubbliche come elementi chiave di protezione sociale.
Si tratterà quindi di verificare e rielaborare i principi distintivi dell’abitare sulla base di nuovi parametri di compresenza e coesistenza tra le persone. Nel quadro delle nuove condizioni che si stanno definendo, in cui il settore delle costruzioni giocherà un ruolo essenziale, l’architettura si trova infatti a recuperare il suo mandato sociale, teso a comprendere, nell’urgenza inaspettata, i confini della nostra etica disciplinare e i nostri doveri collettivi.
La casa per tutti
Soprattutto nel settore dell’edilizia residenziale pubblica e sociale, serve aprire una riflessione più ampia. Essendo lo spazio pubblico indispensabile per riconoscersi come parte della comunità, la sua dissoluzione all’interno dello spazio domestico comporta infatti una disgregazione del rapporto interno/esterno, mettendo a dura prova non solo l’identità personale, ma anche quella della casa, che assume forme d’ibridazione, talora molto evidenti: proprio lo spazio domestico diviene infatti la sede di una serie di attività che interferiscono in una successione di azioni spesso sovrapposte o in conflitto. In questo quadro dobbiamo porre l’attenzione sulle condizioni delle classi sociali più svantaggiate. Sono loro quelle che hanno vissuto (e subìto) con maggiore intensità, in questi mesi, spazi interni piccoli e poco flessibili o la carenza di spazi aperti fruibili, così come connessioni telematiche poco efficienti o penuria di terminali informatici. Spazi aperti protetti e spazi residenziali sicuri sono gli obiettivi che la nostra società deve darsi per fare dell’abitazione un rinnovato fattore di qualità sociale.
Due domande per il futuro della residenza pubblica
Come progettisti dovremo essere in grado nel futuro di rispondere con efficacia a un doppio ordine di problemi: come fare a risarcire lo spazio pubblico negato all’interno dell’unità abitativa quando ancora numerose (forse troppe) famiglie vivono in spazi assai limitati e assenti di qualsiasi dispositivo di connessione? quante di queste abitudini straordinarie a cui siamo costretti diventeranno ordinarie, se sono attendibili le previsioni degli scienziati che annunciano un lungo periodo d’instabilità segnato da nuove possibili pandemie favorite da un modello di sviluppo che confligge con le leggi della natura? Queste ed altre domande mettono le diverse competenze coinvolte di fronte ad una mutata coscienza dell’abitare, forse ancora troppo scossa per poter trovare soluzioni definitive, ma certamente pronta ad affrontare un nuovo “spirito del tempo”.

Architetta, è docente presso il Politecnico di Milano, dove insegna Progettazione architettonica e urbana. Presidente del Corso di studi in Architettura (2013-14) e in Sustainable Architecture and Landscape Design (2015-19), collabora con scuole italiane ed internazionali, partecipando a numerose iniziative didattiche, anche attraverso l’attività pubblicistica. Dal 2010 dirige la International Summer School “OC Open City” presso il Polo territoriale di Piacenza. È inoltre attiva, presso il Dipartimento di Architettura e Studi urbani, nel programma pluriennale del “Dipartimento d’eccellenza”, dedicato alle fragilità territoriali. Dal 2019 è membro esperto della Struttura tecnica di missione del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.