Fuori-luoghi. Storie e geografie del periferico/2

Fuori-luoghi. Storie e geografie del periferico/2

 

Vedere con i piedi. Per una specie d’inerzia dello sguardo, tendiamo spesso a classificare ciò che appare sotto i nostri occhi secondo categorie precostituite, precludendoci così di vedere, di riconoscere e comprendere

 

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Se, come accade oggi, non disponiamo più di ipotesi e strumenti adeguati per la periferia, dovremmo ritornare a percorrerla. A camminarvi, osservarla, descriverla. Prenderne le misure, in lungo e in largo, attraverso i nostri passi; scoprirne o ritrovarne le tracce per mezzo di un guardare scevro da condizionamenti o riferimenti troppo rigidi. Di fronte a situazioni che ci lasciamo disarmati sul piano della conoscenza, una mossa utile è talvolta quella del reset. Ricominciare ad ascoltare i racconti dalle voci degli abitanti; scrutare oltre le silenziose apparenze dei paesaggi e degli oggetti, delle luci e delle ombre. Decifrarne gli spazi, i vuoti e i pieni che ora ci appaiono informi e insensati. Indagare di nuovo con rigore e passione le periferie: ridefinire parole, concetti e immagini per nominarle e trasformarle, partendo da fenomeni e processi concreti.

Riprendere un contatto sensibile e corporeo con quanto ci è diventato incomprensibile. Quanto è stato di volta in volta ritenuto eccessivo, inappropriato, inopportuno. Fuori-luogo, appunto. Rimettere i fuori-luoghi sotto i nostri piedi, letteralmente, contro l’indifferenza e l’oblio a cui sono destinati, pur essendo di fatto i posti da noi più spesso frequentati, i paesaggi che più di altri abbiamo sotto gli occhi. Ripercorrerli quindi per riconoscerli nella loro consistenza di case, strade, spazi aperti, recinti, terrains vagues. Cose in abbandono, ma anche in attesa. Repertori di oggetti eterogenei, privi ormai di ogni ambizione, che tuttavia meritano qualcosa di più di una percezione distratta e chiedono di essere presi in cura come presenze di un habitat da riqualificare, e non solo elementi o parti di un’anonima estensione di vuoto punteggiato da residenze, edifici produttivi e commerciali, grandi e piccoli contenitori del consumo e del divertissement, infrastrutture, aree di risulta, terreni incolti o divorati poco a poco dall’incuria, etc.

Camminare nei fuori-luoghi per vedere di cosa sono fatti. Uscire dalle biblioteche, come raccomandava Patrick Geddes, per seguire le periferie sul campo: per constatare da vicino la fondatezza o meno di assunti costruiti troppo da lontano (e troppo in fretta). Luoghi comuni su luoghi comuni, che hanno finito col tratteggiare un ritratto della periferia in cui l’immagine dell’oggetto riflette e distorce quella del soggetto, dell’autore del quadro. Ma come percorrere realmente le periferie? Come e dove rivolgere lo sguardo? Vedere “con i piedi”, come auspica Benedikt Loderer, non è un paradosso. Che lo si applichi alla città o alla periferia, può essere anzi un vero e proprio programma, non dissimile da quello che si proponeva un altro architetto svizzero, Lucius Burckhardt, sociologo, economista e studioso della città. Programma tutt’altro che semplice, come la sua Strollology (o Promenadologie; Why is Landscape Beautiful? The Science of Strollology, Basilea, Birkhäuser, 2015) che voleva essere, dagli inizi degli anni ’80 del Novecento, una scienza della riscoperta degli spazi antropizzati: dei paesaggi adottati, trasformati, abitati o abbandonati dall’uomo. Una riscoperta oggi ancora più necessaria e, insieme, una scienza empirica per coloro che rappresentano “the first generation of people for whom the aesthetic experience does not occur automatically. Instead, the place itself must explain its aesthetic intent”  (L. Burckhardt, Strollological Observations on Perception of the Environment and the Tasks Facing Our Generation, in Writings: Rethinking Man-made Environments, Vienna-New York, Springer, 2012, p. 247).

Un luogo, un paesaggio, di qualsiasi natura, non esiste infatti – non pre-esiste – se non allo sguardo di chi l’osserva. Occorre allora attraversarlo e misurarlo con tutto il proprio corpo e non solo con la vista, per averne esperienza e conoscenza oltre il già noto. Per una specie d’inerzia dello sguardo, tendiamo spesso a classificare ciò che appare sotto i nostri occhi secondo categorie precostituite, precludendoci così di vedere, di riconoscere e comprendere. Camminando negli spazi periferici si dovrebbe invece rimanere permeabili all’imprevisto, alla possibilità della scoperta. Di fronte ad oggetti incompiuti, consunti, incongrui, immaginare cosa e come potessero essere quando erano utili o indispensabili, non ancora sfiorati dall’ombra dell’abbandono o dell’insignificanza. Chiedersi quali usi hanno supportato o subito; chi li ha prodotti, installati, lasciati perire; quali destini possono attenderli se qualcuno comincia ad averne cura. Ponendoci queste domande, potremo forse restituire cose, situazioni, processi alla loro storia, più o meno naturale, proiettandoli così verso un futuro possibile, senza lasciarli andare alla deriva.

(2_continua)

 

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