Dovremmo sapere chi ci abita di fronte e su quale terra poggiamo i piedi
La città felice e il ruolo dell’architetto nel rinnovare il senso di comunità
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In Felicità d’Italia, Piero Bevilacqua analizza quanto il paesaggio, l’arte, la musica e il cibo rappresentino un patrimonio essenziale della nostra cultura, un bene comune inalienabile, che da solo permetterebbe ad ogni cittadino di essere “felice”, ovvero vivere pienamente e consapevolmente la propria dimensione sociale, coltivare le proprie aspirazioni, realizzarsi nel tessuto economico di riferimento o addirittura crearne di nuovi. La bellezza e la felicità che ne deriva è un processo di stratificazione che è avvenuto nel tempo e continua ad alimentarsi. Oggi non è persa, come spesso si dice, ma certo può apparire o irraggiungibile o sfocata, proprio perché si sta riducendo sempre più la dimensione collettiva che sottende alla felicità, l’azione civica nella tutela dei beni comuni e la volontà di costruire strumenti di benessere utili a tutti e democraticamente rispettosi della libertà e dell’estro individuale. Al di sotto di questa “azione” ci sono sempre state le comunità, che dovrebbero avere un posto nel patrimonio da tutelare non solo come luoghi fisici ma come straordinari luoghi dell’anima, spazi di esistenza condivisa.
Se c’è una cosa che questo momento drammaticamente straordinario sta mettendo a nudo è la necessità di conoscenza, regole condivise, accesso semplice e immediato alle infrastrutture, tutela del più debole, analisi dei rischi di cui si è portatori, ma anche creatività condivisa, equilibrio con la natura, innovazione e ricerca sempre alimentate. Questo è esattamente ciò che avviene in una comunità e che oggi il modello urbano coltivato dagli stessi architetti, urbanisti e politici, ha più volte distrutto, limitato e ghettizzato in nome di una città fatta di reti e non di relazioni. Stefano Boeri guarda ai borghi come il nostro prossimo futuro, probabilmente con l’idea di riprenderci un modello di vita. Dovremmo sapere chi abita di fronte a noi, su quale terra poggiamo i piedi o quale cielo guardiamo. Del resto Rem Koolhaas, in “Countryside”, individua la campagna come il luogo della prossima utopia urbana.
Al netto delle azioni tecniche necessarie che condizioneranno il vivere quotidiano per superare questa fase e dell’euforia per il design post-pandemico fatto di oscene proposte che propinano cupole di plexiglas stellate, mascherine alla moda e kit per la salvezza dell’ultimo minuto, le azioni da intraprendere per i prossimi mesi, partono da una considerazione: il luogo più sicuro è la famiglia dove ciascuno si prende cura degli altri e nessuno mette a rischio i propri cari. Immaginiamo di mettere in rete questi piccoli nuclei a partire dal condominio, allargando il campo di azione alla strada e alla piazza, ai luoghi che frequentiamo maggiormente, al quartiere e per esteso alla comunità fisica a cui apparteniamo. E così fino a quella economica, sociale, territoriale. Nuclei di persone consapevoli e quindi sicuri, in un sistema permeabile di relazioni. Ci rendiamo finalmente conto, nella lotta contro il virus, che abbiamo bisogno di stare insieme per alimentarci e arricchirci; per farlo dobbiamo riprenderci il territorio che calpestiamo ogni giorno e, soprattutto, dobbiamo conoscerci e ri-conoscerci in un rapporto di mutuo sostegno. È tremendo immaginare teatri e cinema vuoti, luoghi della cultura svuotati della loro essenza, la presenza del pubblico, ovvero il ricordo dell’esperienza. È per questo che l’architetto ha un ruolo straordinario in questo processo perché, quasi in un paradosso, dovrà occuparsi di ridisegnare gli spazi per stare insieme, costruirne di nuovi, rigenerare quelli esistenti, intervenire in un processo di collaborazione sociale partendo dalla trasformazione degli spazi comuni dei condomini, come cortili e atrii, proiettando la sua azione all’intero territorio.
I balconi oggi si sono trasformati in piccoli palcoscenici e i tetti in giardini o piazze per il gioco, ampliando il paesaggio naturale delle città. Quale esempio migliore per immaginare questi spazi come bene comune alla stregua di strade e piazze? Riprogettare queste sezioni di città mettendole in relazione tra loro e chi li abita sarà un lavoro incredibile e appagante per il prossimo futuro, rinnovando il senso di comunità e rigenerando un modello urbano applicabile dai borghi alle metropoli. Se questo è necessario nelle periferie, lo è molto di più nei centri storici delle grandi città dove la civitas è scomparsa, mangiata dall’impoverimento culturale legato allo sfruttamento commerciale indiscriminato. Ed è anche qui che dobbiamo riportare l’idea di una città diffusa e ricca programmaticamente.
L’idea di una città felice, arredata di uno straordinario quanto inevitabile corredo tecnologico capace sempre più di renderla un “organismo”, è quella di mettere in rete tutte le parti del territorio esteso, come luoghi essenziali alla sopravvivenza di ogni suo più remoto ambito, di promuovere la coesione sociale esaltando la dimensione locale, attraverso un sistema di relazioni che parta dai nuclei più semplici della società per estendersi all’intero Paese.
Immagine di copertina: “La città felice” (disegno di Junko Kirimoto)
Laureato in architettura a Firenze nel 1994, con una tesi internazionale in collaborazione con l’École d’Architecture de La Villette. Durante l’università studia sostenibilità ambientale con Thomas Herzog a Darmstadt. Dal 1995 al 2002 è Design Architect per Renzo Piano Building Workshop. Nel 2002 fonda con Junko Kirimoto lo studio Alvisi Kirimoto, che si distingue per l’approccio sartoriale alla progettazione, l’uso attento delle tecnologie e il controllo dello spazio. È stato consulente tecnico per Casa Italia ed è tutor del Progetto G124 per “il rammendo delle periferie”. Tiene seminari, workshop e lecture in tutto il mondo, tra cui “Working in the Urban Periphery” presso la Royal Academy of Arts di Londra (2018)