Dobbiamo fare spazio (pubblico)
Secondo il collettivo orizzontale, se il distanziamento richiede di aumentare lo spazio intorno a noi, dovremo espandere i confini degli ambiti collettivi, per costruire una città che possa accogliere tutti, in sicurezza e senza discriminazioni
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Osserviamo oggi le nostre città da un punto di vista mutato. L’eccezionalità del momento ci propone uno scenario senza precedenti: città svuotate, silenziose, il cui l’unico segno di vita è dato dal risveglio della natura durante una primavera insolita. Al di là del fascino di queste immagini metafisiche, l’assenza è palpabile. La nostra vita pubblica è stata improvvisamente sospesa e non sappiamo ancora figurarci come questa, e di conseguenza i luoghi in cui si svolge, si trasformeranno nel prossimo futuro. L’occasione è insieme delicata e preziosa: le decisioni che prenderemo oggi determineranno il modo in cui, nei prossimi mesi o forse anni, vivremo le città.
L’emergenza sanitaria ha imposto un irrigidimento della disciplina biopolitica, inducendo sistemi di controllo sociale per garantire l’isolamento e contenere il contagio: la paura dell’altro, già pericolosamente accresciuta dall’inasprimento dei nazionalismi, è diventata tristemente reale e ci sentiamo tutto ad un tratto insicuri e inibiti in qualsiasi scambio con il mondo esterno. Per contro è emerso, proprio in reazione all’isolamento, un desiderio istintivo di contatto con gli altri, che si è inizialmente riversato nei nuovi riti sociali in cui le finestre, i balconi, luoghi semi-privati come le corti, i ballatoi, le scale sono stati riscoperti come spazi di relazione. E questo ha allenato il nostro sguardo alla scoperta di paesaggi di prossimità: esplorare i confini dei luoghi in cui abitiamo, scoprirne lati inattesi e potenzialità, in certi casi verificarne l’esiguità o la totale carenza. Attraverso una prossemica tutta nuova abbiamo cercato di espandere quanto più possibile questi spazi di vita, creando confini porosi in cui hanno preso forma vere e proprie reti sociali: come nella città cellulare descritta da Richard Sennett gli spazi tra le case, adattandosi ad accogliere attività ordinarie e straordinarie, hanno favorito la creazione di sistemi collaborativi e sinergici.
Al di là di questi nuovi arcipelaghi di vicinato, lo spazio pubblico risulta un grande assente nella temporanea riconfigurazione del sistema città: all’inizio del lockdown è stato interdetto, come se non si trattasse di una parte della cura ma solo del problema. Solo ora torniamo timidamente ad abitarlo, ma la sensazione è quella di trovarsi in un corpo estraneo, fragile, dall’esistenza precaria. E invece ne abbiamo bisogno oggi più che mai, perché «è attorno ai luoghi [urbani] che l’esperienza umana tende a formarsi e articolarsi, è qui che viene condotto il tentativo di gestire le dimensioni condivise della vita, è qui che i significati dell’esistenza sono delineati, assorbiti e negoziati» (Zygmunt Bauman). Se l’ambiente domestico è diretta espressione delle disuguaglianze sociali, lo spazio pubblico è il luogo dove queste distanze dovrebbero essere accorciate, dove si svolge quotidianamente un esercizio pratico di democrazia.
Ci sono, a ben vedere, degli aspetti critici nella gestione dello spazio pubblico che l’emergenza sanitaria non ha fatto che acuire. La semplificazione dell’habitat umano, dettata da esigenze di controllo, non è una novità, ma la crisi funziona come acceleratore in molti sensi. Semplificare vuole dire implicitamente ridurre le possibilità, precludere, escludere; al contrario forme ibride e flessibili aprono all’integrazione, ad una pluralità di significati in cui ognuno possa trovare spazio e riconoscersi. Dovremmo aver imparato – nel superamento del cliché modernista less is more – che la diversità garantisce l’equilibrio del nostro pianeta: biodiversità, policoltura, mixité sociale, in ogni ambito ne possiamo riscontrare i benefici. Non possiamo fare a meno di questa diversità, così come non possiamo fare a meno degli altri: se il distanziamento ci richiede di aumentare lo spazio intorno a noi, dovremo conseguentemente espandere i confini degli spazi collettivi, per costruire una città pubblica che possa accogliere tutti, in sicurezza e senza discriminazioni.
Ci sono diversi modi in cui possiamo fare spazio: riconfigurando strategicamente il sistema della mobilità e di conseguenza gli spazi dedicati alle automobili; recuperando spazi dismessi o in attesa; aprendo spazi sottoutilizzati ad usi molteplici. Attraverso un radicale cambio di paradigma possiamo immaginare soluzioni che aiutino a superare la crisi e che siano allo stesso tempo un volano per la creazione di nuovi modelli di convivenza. Pensiamo – senza indugiare nella scomoda similitudine bellica – ai playground di Aldo van Eyck: sorti a colmare i vuoti lasciati da un’esperienza drammatica, hanno inaugurato un nuovo modo di concepire il gioco dei bambini, la strada, la città.
Strategie e interventi ad interim si rivelano ora uno strumento prezioso ed efficace per rispondere ad eventi imprevisti e repentini (fase 1), per accompagnare una graduale reintroduzione alla vita pubblica (fase 2) e per sperimentare soluzioni che possano prefigurare nuovi scenari di trasformazione (fase 3?).
Immagine di copertina: particolare di piazza del Campo a Siena (© Marina Gennari)
Architetta, dopo un periodo presso la ENSAP di Lille si laurea con lode alla Sapienza di Roma. Nel 2010 è tra i fondatori di orizzontale, studio/laboratorio con base a Roma, il cui lavoro attraversa architettura, urbanistica, arte pubblica e autocostruzione. Con orizzontale realizza progetti in tutta Europa e riceve numerosi riconoscimenti tra cui: YAP MAXXI 2014 promosso da Maxxi e MoMA PS1, RomArchitettura (2015-17) dall’IN/Arch, Giovane talento dell’architettura italiana 2018 dal CNAPPC presso la Biennale di Venezia. Dal 2016 è impegnata nella realizzazione del progetto “Prossima apertura”, intervento di rigenerazione urbana già vincitore del concorso per 10 aree urbane periferiche indetto da MiBACT e CNAPPC.