Disintermediazione: sta a noi decidere

Disintermediazione: sta a noi decidere

I rischi per architetti e designer provengono dal “fronte interno”, che potrebbe relegarli a funzioni ancillari

 

Published 11 aprile 2023 – © riproduzione riservata

Le IA possono progettare sinteticamente ma non dare senso e funzione ai risultati prodotti. Solo il capitale semantico/esperienziale umano può farlo. Come avrebbe acutamente chiosato Roland Barthes per la fotografia, le IA producono solo “pornografia”. Restituiscono solo l’atto informativo in sé, nudo e crudo. È la personale esperienza emotiva di ogni singolo essere umano/progettista che può restituire al mero “atto sessuale calcolatorio” un valore di Eros, Pathos e Seduzione (addurre a sé). È profondamente errato, perciò, pensare che le IA potranno sostituire l’elemento umano, il progettista/designer, il “creatore di senso”. Non è, ad oggi, possibile.

I potenziali rischi per architetti e designer, invece, prendono origine proprio dal “fronte interno”. Sono gli stessi esseri umani, infatti, a poter rendere sostituibili i creativi, applicando la ben nota prassi della “disintermediazione”. Se Amazon o Netflix hanno reso ancillari i negozi di quartiere e le sale cinematografiche, marginalizzando ruolo e funzione, saranno i grandi fondi immobiliari o le “casalinghe di Voghera” di arbasiniana memoria a ipotizzare di poter far a meno di architetti o designer.

I primi, i fondi immobiliari, perché saranno loro a sfruttare le IA per ottenere progetti estremi, ma finalizzati a una redditività massima del loro investimento. Disintermediando completamente la figura di raccordo dell’architetto, quale “mediatore” etico di diversi interessi socioeconomici e culturali. Così come le casalinghe italiane non riterranno più utile rivolgersi al designer per arredare le loro abitazioni se le App di progettazione delle grandi reti di e-commerce forniranno loro un assistente personale, disponibile 24/7, paziente e servizievole, senza scatti d’orgoglio professionale, per dare forma e visibilità alle passioni più sfrenate o perversioni abitative. I progettisti, cioè, se non accecati dall’ego da archistar, diverranno un “problema” per gli stessi umani poiché assumono ruolo e funzione attraverso il compito etico di mediare le istanze che provengono dal mercato, dall’estetica del committente, dalla cultura contemporanea e, non da ultime, dall’ambiente ecosistemico, dalla salute, dal benessere abitativo e dalle fasce di popolazione marginali.

Le IA, al contrario, non saranno un problema per gli egoismi umani poiché non hanno una morale, una visione, un’esperienza di vita, dolorosa o gioiosa che sia. Al contrario. Sono in grado di andare ben oltre, senza limiti e confini. Cambiando le stesse regole del gioco (le IA possono barare) e modificando la tradizione senza ritegno alcuno, spingendosi verso confini che, alla Blade Runner, gli umani non possono immaginare. Non perché siano più creative o intelligenti. Al contrario: proprio perché sono stupide e non hanno senso alcuno di quello che realizzano. Come per l’analogia dell’aereo, è il genere umano a decidere il suo fine: se di trasporto passeggeri o bombardiere nucleare. Ma dal punto di vista prettamente cinico di scopo, sia esso di business o di ego, il nodo è che anche il più “intelligente” dei progettisti non può “competere” con una macchina a livello computazionale: non ne ha il tempo, non può leggere e conoscere tutto, non ha i dati, milioni di miliardi di dati, da confrontare, sviscerare, elaborare. Così come, di converso, una macchina non può emulare un essere umano, soprattutto in Eros e Pathos.

 

La marginalizzazione dell’architetto e del designer

I casi pratici dell’ultimo periodo (come Chat-GPT, Midjourney, Dall-E o gli NFT artistici e i Metaversi) comprovano, senza ombra di dubbio, come le nuove IA generative possano, nel bene o nel male, proporre soluzioni o ipotesi progettuali innovative ormai alla portata di tutti, anche di chi ha solo meri interessi economici o vuole improvvisarsi designer, pur senza retroterra culturale o competenze professionali.

Non saranno perciò le IA a sostituire i progettisti/designer, o a renderli meri esecutori ancillari di qualche formalismo normativo. Sarà lo stesso genere umano a ritenerli inutili, perché di fatto un ostacolo, essendo troppo carichi di Ethos, Pathos ed Eros.

Lo scenario attuale della disintermediazione progettuale altro non è, quindi, che una marginalizzazione dell’architetto o del designer derivante dagli istinti primari degli uomini d’affari o delle casalinghe mancate star alla Chiara Ferragni: se desidero pornografia la chiedo a chi la sa far meglio, senza se e senza ma. Perché limitarmi se posso ottenere tutto? Se non ho tutto, non sono interessato. E se non lo ottengo subito, non sono interessato. E se non lo ottengo senza sforzo, non sono interessato. È la logica delle app e dei social media. Portata alle sue estreme conseguenze. Come in Matrix: pillola blu o pillola rossa? Ciò che sono (Io) o ciò che voglio mostrare ad altri di essere (Sé altro) grazie alle IA che lo rendono possibile, anche a fronte d’ignoranza o speculazione. Non si consideri casuale il fatto che, sempre in Matrix, il creatore di tutto il dualismo reale/virtuale venga appellato come l’«Architetto» …

 

La necessità di un nuovo archetipo culturale per le NexGen di progettisti e designer

Sarà quindi lo stesso genere umano, e non le IA, a disintermediare il ruolo e la funzione degli architetti e dei designer, relegandoli a mere funzioni ancillari. Non la creatività sintetica, il cui unico scopo, inconsapevole, è quello di rendere tutto il sapere accessibile e sfruttabile.

Tuttavia, non si tratta di una sconfitta ineluttabile, se si verranno a creare due precondizioni fondamentali. Da un lato, creare un nuovo archetipo culturale per le NexGen di progettisti e designer, gli unici in grado di andare oltre la creatività sintetica, essendo per costituzione storica nativi digitali. Per chi nei “multiversi” senza regole vi è nato e cresciuto, infatti, non sono presenti “vergogne” o filtri socioculturali che impediscano di “andare fino in fondo”, senza limiti. Esplorando senza paura tutti i nuovi confini che ogni giorno si spostano più avanti, ma anche sperimentando il cambiamento continuo come metodo ordinario, oppure appropriandosi della cifra dell’innovazione come cavallo di battaglia. Solo le NextGen che appieno comprendono i complessi linguaggi delle macchine possono essere in grado di sfruttare le potenzialità a loro favore, dando nuova funzione e ruolo alla creatività semantica e biologica.

La seconda precondizione concerne l’operare una collaborazione intergenerazionale tra “migranti digitali”, cioè i professionisti tradizionali, e i nativi digitali, ossia le nuove generazioni nate nella “società liquida” così come definita da Zygmunt Bauman. Collaborazione necessaria poiché queste ultime, benché possano meglio di altri sfruttare il loro talento digitale, rischiano però di non essere sufficientemente consapevoli delle responsabilità etiche e socioeconomiche che il ruolo e la funzione dei progettisti “creatori di senso” comporta. Non hanno conosciuto guerre o conflitti e non comprendono la sofferenza. Non ambiscono a essere eroi e non desiderano ostacoli o barriere. Tutto e subito, senza se e senza ma.

E come realizzare la cooperazione intergenerazionale? Semplicemente inglobando i nuovi talenti digitali in studi di progettazione già affermati? Non solo. Non basta. È dai processi di formazione continua, come dalle dinamiche esperienziali e sociali, che può nascere una diversa forma mentis progettuale nativa dei multiversi, ma eticamente orientata a livello intergenerazionale. Non sicuramente dai percorsi istituzionali tradizionali, sia formativi che professionali, non ancora in grado di garantire una serie di elementi: contaminazione e “impollinazione” da saperi diversi, apparentemente tra loro non connessi; multidisciplinarietà e interdisciplinarità per governare sistemi complessi; stili di vita orientati alla valorizzazione neuroscientifica dei momenti di flusso creativo; antifragilità per rendere sconfitte opportunità, fragilità punti di forza; pensiero critico e focalizzazione degli obiettivi (prima la domanda, poi la risposta); capacità di selezione consapevole delle informazioni e “pulizia” dell’attuale sovraccarico incontrollato di dati, fake-news, post-verità; meditazione interiore e capacità di “fare silenzio” a fronte di un mondo reale/virtuale dove prevale chi urla e poco spazio viene dato all’ascolto.

Saranno in grado gli architetti, i designer, gli ordini professionali e le fondazioni di architettura, oltre alla società civile e alle istituzioni universitarie, di strutturare operativamente nuove “bussole” per un futuro per ora fosco e pieno di rischi? Riusciranno a modificare il paradigma fondante del contratto sociale, passando dall’istruzione, ora in mano al digitale, all’educazione etica e sociale, ancora di dominio umano?

Autore

  • Daniele Verdesca

    Nato a Gallipoli (Lecce, 1965), laureato in architettura all'Università di Firenze nel 1992, ha conseguito un master presso il Dipartimento di Geo-informazione dell'Università di Vienna nel 1993, un dottorato di ricerca in Pianificazione all'Università La Sapienza di Roma nel 1998 e un post-dottorato presso il Dipartimento di Economia politica dell'Università di Siena nel 2006. È direttore della Cassa edile della provincia di Lecce, curatore di Smart Ark Academy e presidente dell'associazione culturale Eligere futuro

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