Dalla città della resilienza alla città della resistenza

Dalla città della resilienza alla città della resistenza

 

Chi vive in situazioni di privilegio ha eretto invisibili confini all’interno della città e può essere narcisisticamente resiliente. Gli architetti dovrebbero invece passare alla resistenza e acquisire nuovi strumenti per reagire

 

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Da un giorno all’altro la nostra realtà s’è trasformata in un romanzo distopico: un ignoto virus sta “invadendo” il pianeta e per fermarlo dobbiamo isolarci e bloccare ogni attività. Sospesi in un tempo che si dilata e in uno spazio che si restringe, ci accorgiamo che – come evidenzia Paolo Giordano nel recente romanzo Nel contagio – «nessun uomo è un’isola», riflettiamo sul mondo al quale eravamo abituati, capiamo che la globalizzazione ha alimentato il contagio e intuiamo che, finita l’emergenza, non sarà scontato tornare a ciò che eravamo. All’inizio dell’epidemia noi italiani abbiamo imparato cosa significa essere “rifiutati” accorgendoci che l’Europa è diversa da quella che i nostri padri avevano voluto costruire. Abbiamo capito cosa sono le frontiere, cosa vuol dire vivere con strade, spazi aerei e porti chiusi e, difatti, c’è chi comincia a dire che il pianeta è entrato nell’era glaciale della mobilità.

Sperimentiamo la privazione dai luoghi pubblici e c’accorgiamo che la segregazione sta scavando profondi fossati tra i pochi privilegiati e i sempre più numerosi poveri. Vip di vario genere, dalle loro belle case, esortano a non uscire. Intanto, immaginiamo come può essere l’esistenza coatta in pochi metri quadri; ripensiamo alle scene di Parasite (recentemente premiato agli Oscar come miglior film; nell’immagine di copertina, due fotogrammi), alle differenze sociali che si manifestano con violenza nelle disparate forme che può assumere lo spazio abitato. Come sono questi strani giorni per quelle famiglie stipate in abitazioni men che modeste? Come vive chi è solo o chi subisce violenza tra le pareti domestiche? Come vivono i troppi bambini e ragazzi afflitti dalla povertà educativa, ora che le scuole sono chiuse?

Anche per questo crediamo che, superata la pandemia, ci serviranno nuovi spazi pubblici dove riconoscerci come parte di una comunità. Nell’attesa che questo tempo dilatato finisca, alterniamo momenti in cui crediamo che la ripresa ci permetterà di migliorare il mondo che abitavamo, a momenti in cui temiamo che la segregazione collettiva stia solo servendo a generare nuove forme di consumo elitario e steccati sociali, in cui la tecnologia giocherà un ruolo cruciale. Intuiamo le implicazioni che questo potrebbe avere sul futuro delle città.

Facciamo smart working e didattica digitale e, mentre sperimentiamo le tante cose che il nostro Paese avrebbe potuto già fare per facilitare la vita dei cittadini, ci rendiamo conto delle troppe persone che non hanno neanche un dispositivo e una connessione digitale; vediamo crescere la povertà dei tanti che non potendo lavorare non possono più vivere, apprendiamo che nei nostri ospedali scarseggiano anche le mascherine e i dispositivi di protezione individuale.

In questi giorni c’è pure chi, per lavoro, può attraversare e contemplare la città deserta. Molti di noi, invece, s’affacciano più spesso a balconi e finestre raccogliendo informazioni: le voci di vicini che non sapevamo di avere, o il canto degli uccelli che sono tornati anche in questa strana primavera. Ora che le auto sono ferme, ci giunge addirittura il profumo del mare o di quell’albero di fronte a casa. La vista di questo strano mondo da cui sembriamo temporaneamente assenti ci ricorda che, essendo parte dello stesso ecosistema, dovremmo costruire nuove alleanze tra umani e natura.

Al momento sembrano quasi saltate le differenze tra centro e periferia, visto che ormai siamo quasi tutti esclusi. I pochi che, vivendo in situazioni di privilegio, hanno eretto invisibili confini all’interno della città, adesso, possono essere narcisisticamente resilienti e, nell’attesa, organizzano lobby e piattaforme collaborative che si candidano a progettare il dopo che s’avvicina. In quanto architetti ci pare che dovremmo invece passare alla resistenza e acquisire nuovi strumenti per reagire a quest’esperienza. Il resiliente crede che, finita la crisi, tutto tornerà com’era e quindi s’adatta cercando di attutire gli urti; il resistente, invece, s’oppone attivamente agli stati di crisi e, facendone esperienza, giunge addirittura a generare energia. Un resiliente può davvero isolarsi, mentre la resistenza ha sempre una dimensione collettiva. Come ricorda ancora Giordano, «nel contagio torniamo a essere una comunità» e, per questo, riteniamo che non dovremo delegare ad altri la costruzione del dopo che ci attende. Non sappiamo ancora quali prove ci aspettino quando ripartiremo, ma crediamo che occorrerà fare resistenza per compiere scelte audaci e colmare le stridenti differenze che questa pandemia ha messo in luce.

Autore

  • Lucia Pierro e Marco Scarpinato

    Lucia Pierro, dopo la laurea in Architettura all'Università di Palermo, consegue un master in Restauro architettonico e recupero edilizio, urbano e ambientale presso la Facoltà di Architettura RomaTre e un dottorato di ricerca in Conservazione dei beni architettonici al Politecnico di Milano. Marco Scarpinato è architetto laureato all'Università di Palermo, dove si è successivamente specializzato in Architettura dei giardini e progetto del paesaggio presso la Scuola triennale di architettura del paesaggio dell'UNIPA. Dal 2010 svolge attività di ricerca all’E.R. AMC dell’E.D. SIA a Tunisi. Vive e lavora tra Palermo e Amsterdam. Nel 1998, insieme fondano AutonomeForme | Architettura con l'obiettivo di definire nuove strategie urbane basando l'attività progettuale sulla relazione tra architettura e paesaggio e la collaborazione interdisciplinare. Il team interviene a piccola e grande scala, curando tra gli altri progetti di waterfront, aree industriali dismesse e nuove centralità urbane e ottenendo riconoscimenti in premi e concorsi di progettazione internazionali. Hanno collaborato con Herman Hertzberger, Grafton Architects, Henning Larsen Architects e Next Architect. Nel 2013 vincono la medaglia d'oro del premio Holcim Europe con il progetto di riqualificazione di Saline Joniche che s'inserisce nel progetto "Paesaggi resilienti" che AutonomeForme sviluppa dal 2000 dedicandosi ai temi della sostenibilità e al riutilizzo delle aree industriali dismesse con ulteriori progetti a Napoli, Catania, Messina e Palermo. Parallelamente, all'attività professionale il gruppo sviluppa il progetto di ricerca "Avvistamenti | Creatività contemporanea" e cura l'attività di pubblicistica attraverso Plurima.. Scrivono per «Il Giornale dell’Architettura» dal 2006.

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