Dal sacro alle sacralità sostitutive
Le numerose nuove sacralità, laiche, ci hanno allontanato da una sacralità del costruito che dobbiamo recuperare come ragione di vita
Published 16 luglio 2021 – © riproduzione riservata
Nella mia vita di architetto ho sempre creduto che ogni attività umana, limitandomi qui solo alle scritture artistiche (ossia alla poesia, al romanzo, al teatro, alla danza, alla musica, al canto, alla fotografia, al cinema, alla pittura, alla scultura, all’architettura) sia intrinsecamente sacra.
Soffermandomi in particolare sul costruire, quando si erge un dolmen, uno o più cerchi di colonne o di lastre in pietra come a Stonehenge; quando si innalza un monumento tombale, una capanna, un tempio, ma anche quando si realizza un ponte, un acquedotto o la cerchia muraria di una città, non si fa che dare vita a un sistema di elementi che sono sempre, direttamente o in modo implicito, un’interpretazione del cosmo nella sua totalità. Un’interpretazione che è sempre avvolta in una dimensione misteriosa, indicibile, che solo un trascendimento di sè in una sfera superiore a qualsiasi nostra capacità d’immaginare rende, in una certa misura, avvertibile e operante.
In breve, il sacro entra nella nostra vita, per quanto riguarda l’architettura, dopo il passaggio dall’utilità del costruire alla sua espressione intellettuale. Andando più avanti, “lo spirituale dell’arte”, come lo definiva Wassily Kandinsky, c’introduce nel territorio elevato, che spesso crediamo inaccessibile, della sacralità dove, per vie inspiegabili, ritroviamo noi stessi nella nostra singolare e unica verità.
Nell’ordinamento dei ruoli e dei poteri della Roma antica, il Pontefice massimo esprimeva il carattere magico e miracoloso dell’edificazione di una struttura prima lignea, poi in mattoni e in marmo, quanto mai difficile, data la necessità che le pile fossero realizzate in acqua, ma essenziale in quanto consentiva, collegando le sponde del Tevere, di mettere in contatto i quartieri che si fronteggiavano tra la riva latina e quella etrusca. Questa dignità sacerdotale, ereditata dal cristianesimo come attributo primario del capo della chiesa, segnalava la sacralità dell’architettura, che trovava peraltro un’ulteriore espressione nella fondazione della città, che poteva avvenire solo dopo il consenso delle divinità. Una legittimazione che era compito degli auguri accertare con riti adeguati. L’uccisione di Abele da parte di Caino e di Remo per mano di Romolo, due fratricidi, esprimevano simbolicamente, attraverso un sacrificio, l’affermarsi di una visione della città nei confronti di una opposta concezione che avrebbe reso instabile la comunità urbana. Le case erano spazi consacrati dai lari e dai penati, ricordati in appositi altari.
L’eclissi del sacro nel costruire
La sacralità del costruire, rappresentata dalla mimesi cosmica, e dal simbolismo del corpo umano come creazione divina, è ormai da molto tempo e pressoché del tutto scomparsa in una molteplice secolarizzazione.
Riassumendo sinteticamente un’evoluzione plurisecolare, nel Settecento l’Illuminismo ha sacralizzato la ragione sostituendola all’ispirazione divina; la successiva rivoluzione industriale, poi affermatasi pienamente in Occidente tra metà Ottocento e primo Novecento, ha laicizzato attraverso il culto della tecnica, divenuta tecnologia, ciò che restava del sacro in una dominante razionalità.
Dal secondo Novecento a oggi, un’ennesima rivoluzione, quella digitale, ha inventato la nuova sacralità del virtuale come antitesi della realtà fisica. Un virtuale che si ritiene più autentico del vero, in cui la rappresentazione mediatica del mondo e della vita in esso concentra in sè tutti i contenuti e i valori dell’esistenza. Uno dei risultati in architettura dell’eclissi del sacro in quanto tale è la prevalenza della categoria dell’utilitas, un potere assoluto del funzionalismo che ha ridotto la “bellezza come splendore della verità”, secondo San Tommaso ispirato a Sant’Agostino, a una semplice qualità discorsiva, una descrizione delle cose e delle vicende di stampo consumistico che si pone come illusione rassicurante, schiacciata su un presente che annulla il passato mentre vuole configurarsi come un futuro già in atto.
Le nuove sacralità
Analizzando brevemente la situazione attuale dell’architettura, da trent’anni divenuta globale, mi sembra emergano alcune forme di sacralità sostitutiva, se così si può dire, che hanno preso il posto di quella in cui io, ma non sono certo il solo, continuo a credere. Una sacralità che è, in due parole, il mistero del vivere, la ricerca di un senso pieno dell’essere nel mondo che si fa dialogo ininterrotto con la creazione. Un senso che deve consistere in quello che l’architettura trasmette, o detto in modo più semplice, ciò che l’abitare è.
Le sacralità sostitutive sono, secondo me, la sacralità laica dell’ambientalismo, nella quale di consuma la grave crisi dell’umanesimo mentre si celebra l’affermazione del postumano; la sacralità tribale dei social, con la sua temporalità ipotetica, istantanea, priva di memoria; la sacralità della tecnologia, un sapere che si ritiene senza limiti, uno strumento che si considera ormai come un fine; la sacralità del digitale, di fatto una nuova religione alla quale si chiede di rimodellare totalmente le comunità nei loro valori e nei loro obiettivi nonché il mondo in esse vivono; la sacralità dell’artista, e non più dell’arte, in quanto l’artista è ritenuto oggi un profeta, e quando è morto, come Joseph Beuys, un santo che va oltre ogni convenzione e qualsiasi argomentazione scientifica per coincidere con l’inconoscibile. Questa divinizzazione dell’arte è l’effetto della sopravvalutazione del suo ruolo che è sempre stato, nonostante la leggenda di un’assoluta libertà creativa che lo caratterizzerebbe, un ruolo condizionato anch’esso dagli aspetti funzionali della scultura, di un quadro, di un’istallazione.
Memento
A fronte di questa analisi, che spero attendibile nonostante sia sommaria nella sua esposizione, ritengo che sia necessario e urgente che il tema della sacralità del costruire sia di nuovo affrontato. Occorre infatti esplorare storicamente e criticamente il campo delle sacralità sostitutive, che sono senz’altro più numerose delle cinque qui individuate, per verificare se e come ricollocarle in un ambito nuovamente unitario, vale a dire meno frammentato in specialismi superflui o errati e, soprattutto, non autoreferenziali. In effetti, tutto ciò che gli esseri umani hanno ritenuto sacro, come il costruire, così come altre scritture artistiche, non è mai scomparso, ma ha subìto le modificazioni indotte dal quadro che ho tracciato. Negli ultimi decenni si è affermata l’idea che la bellezza di un’architettura, l’essenza della sua forma non è più l’esito di una sintesi armonica delle sue varie componenti sotto il segno di un equilibrio spirituale tanto evidente quanto misterioso. Essa è considerata a volte, semplicemente, come l’eleganza della composizione, ma più spesso una configurazione che pretende di essere eccezionale, unica, capace di suscitare sorpresa, una presunta meraviglia piuttosto che ciò che nasce da una reale e necessaria logica grammaticale e sintattica.
Aggiungo a questa considerazione che, se ogni architettura è sacra in quanto riflette la sacralità del cosmo e del suo creatore, quando essa è una chiesa, una sinagoga, una moschea o una tomba, è sacra al quadrato. È come se ciascuno di questi edifici avesse una doppia natura: quella di ospitare un culto con i suoi riti e quella di dare del culto stesso un’immagine comprensibile alludendo, al contempo, al mistero che circonda e alimenta ogni religione, ponendoci per tutta la vita domande alle quali cerchiamo di rispondere. Questa ricerca, e non quella che viene richiesta alle sacralità sostitutive, è di per sè una delle più forti ragioni di vita, non dobbiamo dimenticarlo.
Concludendo queste note, mi auguro che anche nelle aule delle scuole di architettura si sentano di nuovo questi interrogativi, e si possa poi ascoltare o vedere che cosa essi hanno avuto come esito ideale, concettuale e operativo.

Franco Purini (Isola del Liri 1941), dal 1966 ha studio a Roma con Laura Thermes. Professore Emerito di Composizione Architettonica e Urbana presso la Facoltà di Architettura dell’Università di Roma “Sapienza”. Ha insegnato allo IUSARC di Reggio Calabria, allo IUAV di Venezia e al Politecnico di Milano. Ha tenuto conferenze e partecipato a seminari e workshop in Europa, negli Stati Uniti, nell’America del Sud, in Cina e in Giappone. È membro dell’Accademia Nazionale di San Luca e dell’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze. Suoi disegni e progetti sono presso il Museo di Architettura di Francoforte, il Beabourg a Parigi, il MAXXI a Roma, gli Uffizi a Firenze, l’Abertina di Vienna. Ha organizzato mostre per il Ministero degli Esteri, la Biennale di Venezia, il Museo Trevi Contemporary e realizzato allestimenti per la Biennale di Venezia, la Triennale di Milano, la Galleria Borghese a Roma. E’ presente in numerosi comitati scientifici di riviste e di collane editoriali. Tra le sue pubblicazioni più recenti: La misura italiana dell’architettura (Editori Laterza, 2008), Scrivere architettura. Alcune cose su cui abbiamo dovuto cambiare idea (Prospettive Edizioni, 2012), Tre errori moderni, (Edizioni Arianna, 2016). Assieme a Laura Thermes, Franco Purini è autore di numerosi progetti, tra i quali molti per concorsi italiani e internazionali. Tra questi la Casa del Farmacista (1980), il Sistema delle Piazze di Gibellina (1983), la Cappella di Sant’Antonio di Padova, a Poggioreale (1984). Tra le ultime realizzazioni dello studio Purini-Thermes l’edificio per uffici «Kubo» a Ravenna (2005), il complesso parrocchiale di San Giovanni Battista a Lecce (2006) la stazione «Metro Jonio» a Roma (2009).