Consumo di suolo: risolviamo l’iniqua questione dei “diritti acquisiti”
Riceviamo e pubblichiamo una risposta all’inchiesta, che richiama il problema dell’asimmetria nel regime dei suoli
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Ho letto con molta attenzione l’inchiesta, che mi è sembrata interessante ed utile. Tuttavia, a mio avviso, non si è toccata la questione centrale: il nodo dei cosiddetti “diritti acquisiti” dai proprietari dei suoli (sia pubblici che privati) interessati da trasformazioni urbanistiche ed edilizie. Qui sta la questione da dirimere, collegata al cosiddetto “doppio regime dei suoli” presente in Italia. In breve, i suoli destinati alla trasformazione libera che sottostanno ai soli vincoli urbanistici (cioè lo ius aedificandi: densità, altezze, distanze, tipologia, ecc.) che operano con le regole del libero mercato; e i suoli destinati a ospitare infrastrutture e attrezzature pubbliche che sottostanno ai cosiddetti vincoli urbanistici ablativi, perché richiedono l’obbligatorio trasferimento della proprietà all’ente pubblico che deve costruirci sopra un servizio (infrastrutture a rete o puntuale, edifici pubblici, ecc.).
Una “questione” vecchia, vecchissima, mai realmente affrontata in Italia, eppure centrale. Perché, di fatto, differenzia i suoli e il comportamento dei loro proprietari tra chi è libero di attuare trasformazioni «a tempo indeterminato»; e chi invece libero non è, perché sottomesso alle indicazioni e ai comportamenti dei soggetti pubblici entro tempi definiti: 5 anni, scaduti i quali le aree si trasformano – congelandosi – in “grigie”, cioè senza destinazione urbanistica. Quindi aree in attesa, ma di fatto, fuori mercato. La questione è drammaticamente asimmetrica: 5 anni/tempo indeterminato.
Solo questo giustifica la legge nazionale. Ma non è accettabile ancora l’idea che questi “diritti” (che chiamiamo acquisiti solo per comodità, perché non c’è nessuna norma nazionale o regionale cui ancorare questa scelta, se non quella del mercato) non siano a scadenza o, come si sostiene nell’inchiesta del Giornale, possa essere doppia rispetto a quelli pubblici: 10 anni. Non è accettabile per un problema di equità tra proprietari e anche costituzionale: tutti siamo uguali davanti alla legge. Nessuno dei disegni di legge depositati in Parlamento si misura su questa questione, ad eccezione del DDL 984/2019 Senato, che indica appunto in 10 anni la decadenza delle previsioni degli strumenti urbanistici locali vigenti.
Una siffatta posizione è, per me, illiberale. La domanda che pongo, e che Il Giornale dell’Architettura dovrebbe sostenere, è questa: se decadono i vincoli ablativi (quelli sull’esproprio, che tra l’altro garantiscono le aree per le strade, piazze, edifici pubblici, senza le quali nessuna trasformazione privata è realmente possibile, perché garantiscono cioè la costruzione della cosiddetta Città Pubblica), come mai non debbano anche decadere tutte le destinazioni di piano a questi vincoli collegati? Perché dobbiamo continuare ad accettare questa asimmetria tra gli attori delle trasformazioni?
Immagine di copertina: edificio incompiuto a Sammezzano (Firenze)
Urbanista, ha studiato allo IUAV e alla LSE. È docente ordinario di Urbanistica all’Università di Firenze, vicedirettore del Dipartimento di Architettura e coordinatore del Dottorato di ricerca in Architettura. È componente esperto di urbanistica nel Consiglio superiore dei lavori pubblici. Dal 2011 al 2016 è stato segretario generale dell’Istituto nazionale di urbanistica