Un patrimonio da indagare e valorizzare
Tra degrado, rischi di collasso e (pochi) esempi di riutilizzo, gli edifici superstiti richiedono restauro ma anche trasformazioni d’uso ancora da mettere a fuoco
Published 20 gennaio 2021 – © riproduzione riservata
Il recente crollo di una parte della colonia marina Varese a Milano Marittima pone di nuovo il problema del destino degli edifici superstiti della vicenda delle colonie per l’infanzia. Una vicenda lunga e complessa che, dopo la sua apparizione alla metà del XIX secolo, ha attraversato il secolo successivo per poi estinguersi a fine anni settanta. Le colonie per l’infanzia hanno rappresentato un programma terapeutico ed educativo diffuso in numerosi altri paesi, ma che ha tuttavia assunto in Italia propri caratteri, rilevanti sia rispetto alla sfera sociale che a quella architettonica (come mostrano i volumi di Silvia Inaudi, A tutti indistintamente. L’Ente Opere Assistenziali nel periodo fascista, 2008, e di Roberta Mira e Simona Salustri, Colonie per l’infanzia nel ventennio fascista. Un progetto di pedagogia del regime, 2019).
Un patrimonio ingente
Questo sforzo collettivo lungo un secolo e mezzo ha lasciato sul territorio italiano un ingente patrimonio costruito ormai privo della sua destinazione originaria. Se molte colonie hanno trovato una nuova vita adattandosi a diverse ma compatibili destinazioni, come edifici scolastici (la colonia “9 maggio” a Poggio di Rojo, L’Aquila) o museali (colonia marina a Sciacca, Agrigento), ma anche residenze turistiche (le colonie “9 maggio” a Moneglia, Genova, e Fara di Camillo Nardi Greco a Chiavari, Genova), altre sono tuttora soggette a demolizioni (sono noti i casi della colonia Pavese o della Redaelli a Cesenatico, Forlì-Cesena), o a trasformazioni incongrue che ne alterano i caratteri architettonici rendendo l’edificio irriconoscibile (l’ospizio marino Cremonese a Cesenatico o la colonia delle Giovani italiane a Dizzasco d’Intelvi, Como), o ad abbandono (tra tutte, la colonia di Luigi e Gaspare Lenzi a Santa Severa, Lecce, o quella di Camillo Nardi Greco a Rovegno, Genova).
Oggi, per gran parte di questi edifici ridotti allo stato di rovina, le sempre più avanzate condizioni di degrado delle strutture fanno presagire il rischio concreto di un rapido e irrimediabile collasso. Al rischio della scomparsa si associa quello connesso alle mutate condizioni della loro localizzazione. Edificate in siti non lontani da centri urbani già toccati dal turismo, tali strutture sono state progressivamente raggiunte dallo sviluppo urbano successivo, passando dalla condizione di sedi di comunità umane isolate in contesti pressoché naturali, a quello di isole di naturalità in contesti pressoché urbanizzati.
Queste isole, il cui degrado è documentato da numerose inchieste fotografiche tra cui quelle di Dan Dubowitz nel 2010 e di Lorenzo Mini nel 2017, sono anche luoghi in cui la densità dei tessuti urbani trova una pausa. Per molti territori, come alcuni tratti delle coste adriatiche e tirreniche e alcuni centri sciistici alpini, la condizione di abbandono di queste pause urbane ha spesso coinciso con la rinascita della loro naturalità, rendendole particolarmente interessanti e preziose per lo sviluppo dei territori in cui insistono: attorno a colonie marine abbandonate, come la già citata Varese, si riformano cordoni di dune e rinascono precedenti pinete, mentre in colonie montane i boschi riprendono il posto dei prati dell’elioterapia. Questo apre a domande sulla qualità di numerosi interventi di trasformazione urbana che non sempre riescono ad allontanarsi dalle costrizioni della valorizzazione economica e che riducono il patrimonio delle colonie a un mero supporto, nel quale svaniscono qualità architettoniche e valori memoriali.
Tutela, conservazione e valorizzazione
I problemi della tutela, conservazione e valorizzazione delle colonie per l’infanzia, come anche la fragilità di molti progetti di riabilitazione, sono noti da tempo. Già nel 1985 la rivista “Domus” pubblicava un’inchiesta curata da Fulvio Irace sulle colonie marine degli anni trenta nella quale si lanciava un allarme sui pericoli in cui incorrevano questi edifici sotto la pressione del mercato immobiliare e della sordità o incapacità dei loro committenti, spesso autorità regionali lontane, di intervenire. Al suo interno, Marco Dezzi Bardeschi sottolineava alcuni “Punti fermi di buon senso dell’impegno e delle responsabilità di una società che aspira ad essere definita civile: la conservazione ed il corretto ri-utilizzo di questo immenso patrimonio costruito; l’effettiva tutela delle residue aree verdi e delle risorse ambientali del litorale”, mentre Giorgio Frisoni, Elisabetta Gavazzi, Mariagrazia Orsolini e Massimo Simini mettevano in risalto la necessità di una preliminare azione conoscitiva dei singoli edifici come premessa per ogni intervento.
Un interesse rinnovato
Da quell’ormai lontano grido d’allarme, si è assistito ad un rinnovato interesse per l’architettura del XX secolo, con un’azione articolata di documentazione ed un dibattito a volte acceso sul restauro e riuso delle colonie, in particolare da parte di DoCoMoMo, e ad un’azione degli organi di tutela locali e nazionali che hanno favorito momenti di conoscenza e forme di protezione per i casi di maggiore rilievo storiografico. Tuttavia, nonostante la moltiplicazione di esempi di conservazione realizzati o in atto (come alcune colonie al Calambrone o la colonia del fascio di Rieti al Lido di Montesilvano, fino al progetto di trasformazione della colonia SIP/ENEL di Giancarlo De Carlo a Riccione), non sembra ancora apparsa una modalità esemplare d’approccio, e i caratteri dei singoli interventi appaiono piuttosto governati dal caso per caso.
In questo contesto si aprono alcune concrete questioni di conoscenza. Da un lato, c’è la necessità di estendere l’interesse conoscitivo dalla qualche decina di edifici realizzati durante la seconda metà degli anni trenta, pressoché corrispondenti alle selezioni fatte da Mario Labò e Attilio Podestà per “Casabella” nel 1941 o da Stefano De Martino e Alex Wall per l’esposizione londinese “Cities of Childhood” del 1988, ad un perimetro maggiore comprendente sia le precedenti realizzazioni di ospizi marini e di colonie scolastiche di vacanza, sia le successive numerose realizzazioni degli anni sessanta e settanta.
Dall’altro lato sembra ormai necessario considerare l’intero contesto territoriale nel quale si è svolta la vicenda, finora in larga parte orientato allo studio delle colonie marine, allargando l’orizzonte anche alle costruzioni in montagna, in collina o lungo le rive di fiumi e laghi. Ne sono testimoni i pochi inventari esistenti e dedicati a singoli territori, a partire da quelli pionieristici relativi all’Emilia-Romagna (Colonie a mare, 1985) e alla Toscana (Le colonie marine della Toscana, 1993), prevalentemente limitati alle colonie lungo le coste. Inoltre, si avverte la mancanza di un’indagine a largo spettro che indichi “quale e quanta” architettura delle colonie per l’infanzia ancora esista in Italia, per riprendere il titolo dell’esposizione sull’architettura moderna in Emilia-Romagna curata da Maristella Casciato e Piero Orlandi nel 2005.
Infine, sembrerebbe propizia un’indagine critica sugli ormai numerosi esempi non solo di riabilitazione o di restauro conservativo, ma anche di modificazione e trasformazione d’uso, indicando i criteri, i metodi e le motivazioni, allo scopo di estrarne, se non una teoria, almeno alcune linee guida relative ad appropriate tecniche e metodi d’intervento. In questa indagine sulle trasformazioni e sugli usi delle colonie per l’infanzia, non dovrebbe mancare uno sguardo alle esperienze contemporanee di valorizzazione degli spazi abbandonati. La temporanea occupazione degli spazi delle colonie e delle loro pertinenze attraverso esposizioni o eventi teatrali può contribuire non solo a far conoscere questo patrimonio ai cittadini, ma può anche innescare processi rigenerativi dei manufatti e dei loro contesti, come mostrano le iniziative che coinvolgono le colonie del Marano a Rimini.

Architetto e dottore di ricerca (IUAV), professore ordinario all’Ecole nationale supérieure d’architecture di Normandia, e ricercatore all’Unità di Ricerca Architecture Territoire Environnement. É autore di studi e pubblicazioni sulle colonie per l’infanzia, tra cui Architetture per le colonie di vacanza. Esperienze europee, 2005; Le colonie di vacanza in Italia. Architetture per il soggiorno terapeutico dell’infanzia (1853-1943), 2018; Plasmare anime. L’architettura delle colonie per l’infanzia nel ventennio fascista, 2019. Nel 2006-7 ha diretto il programma europeo «Architecture and Society of Holiday Camps. History and Perspectives» (“Cultura 2000”). Attualmente sta terminando la sua Habilitation à diriger les recherches dal titolo “Modeler les âmes. Architecture et territoire pour les vacances de l’enfance dans l’Italie fasciste. 1926-1943”.