Cappelle e paesaggio naturale, l’estetica dello straordinario
Risorte come tipo architettonico diffuso, le cappelle rappresentano più dei gesti che dei segni. Ecco quattro esempi che hanno come oggetto la vibrazione del divino che scorre nella natura
Sono sempre più frequenti i concorsi di architettura, rivolti principalmente a giovani progettisti e studenti, che ripropongono il tema dello “spazio sacro”. Si badi bene, dello spazio sacro in genere, adattabile a più religioni, multitasking potremmo dire, pronto ad ospitare differenti riti, culture e relative tradizioni. Spazi concepiti come un coltellino svizzero, capace di adattarsi, funzionare, offrire una performance efficiente in base alle diverse (a volte opposte) necessità dei fruitori.
All’interno di quest’ampia cornice, particolare rilievo hanno i progetti di cappelle inserite nel paesaggio naturale. Luoghi di silenzio, non sempre di culto; di contemplazione e non propriamente di preghiera; luoghi di cui fare uso, non da abitare; luoghi da vedere e visitare e non in cui vivere un incontro codificato. C’è una forte ricerca dell’Altro da sé in relazione all’ambiente naturale, meglio se incontaminato, potremmo dire “selvaggio”, essendo abituati in quanto figli della civiltà delle immagini, a consumare esperienze di tipo visivo.
La nota opera Reading between the lines (Looz, Limburg, Belgio 2011) dei belgi Pieterjan Gijs e Arnout Van Vaerenbergh e la più recente Chapel A (Vojvodina, Serbia, 2016) del giovane architettoPredrag Vujanovic seguono tale tendenza di forte relazione, prettamente visiva, con il contesto e il paesaggio che le ospita. La prima è parte di un programma di diffusione dell’arte contemporanea nello spazio pubblico, promosso dal Museo di arte contemporanea di Hasselt; la seconda invece è un progetto non realizzato ma che ha avuto molta fortuna nel sul web a partire dal 2016, ispirata all’arte dello scultore americano Richard Serra. Oggetti architettonici più che edifici, tali cappelle mirano apertamente a una celebrazione dell’armonia insita nel paesaggio in cui sono inserite e indirettamente anche dell’intelletto umano che le ha plasmate. Point of view sulla bellezza del creato, binocoli per osservare scorci di paesaggio, macchine per emozionarci alla ricerca di un “sentire” vasto che ha per oggetto la vibrazione del divino che scorre nella Natura.
Interpretano il medesimo tema ma da una diversa angolatura i progetti della Bruder Klaus Field Chapel (Wachendorf – Germania, 2007) dedicata a St. Nikolaus von der Flüe e della montana Garnet Chapel (Penkenjoch, Finkenberg, Zillertal – Austria, 2013) rispettivamente di Peter Zumthor e Mario Botta. In tali opere, entrambe per una committenza privata, il paesaggio entra per negazione e infatti si nota una chiusura rispetto al circostante. Concepite come luoghi di sosta lungo il cammino, sottolineano il tema non tanto della contemplazione, quanto del silenzio e della meditazione, ergendosi all’interno dei magnifici contesti in cui sono inseriti come presenze massicce, monolitiche, emblematiche, diversamente dai due esempi precedenti. In questo caso la relazione con il paesaggio è nella massa dell’architettura più che nella percezione del visitatore, che una volta entrato è sottratto al paesaggio da uno spazio seducente che impone di sostare. C’è in esse il rimando al rifugio, al guscio che protegge, all’utero materno che accoglie e al contempo garantisce una separazione dall’esterno.
Loro trait d’union è rendere manifesta un’estetica dello straordinario. Il sacro, o per meglio dire l’esperienza religiosa, si appoggia nei primi due casi alla potente bellezza della Natura per suscitare un sentimento, una lacrima, per farci sentire la complessità della relazione con l’Altro per mezzo di una spiritualità fortemente spinta dal punto di vista emotivo-relazionale; negli ultimi esempi invece ciò che emerge è l’artificio compositivo quale veicolo qualificante di un’esperienza di spiritualità unica e mistica, monastica e autoriflessiva.
Sembra quasi che l’estetica del sacro contemporaneo si muova in controcorrente all’estetica dell’ordinario, dell’architettura religiosa di metà ‘900, caratterizzata non da tumultuosi “eventi architettonici” epifanici e ierofanici, quanto piuttosto da spazi pensati per una ritualità volta a celebrare il quotidiano. Ma quelle erano cappelle e chiese frutto di un ripensamento fortemente ancorato alle comunità cristiane. Questi esempi contemporanei hanno invece la tradizione cristiana come sfondo e come immagine evocativa, ponendosi un orizzonte simbolico assai più vasto e sin dall’origine polisemico.
Se le cappelle risorgono come tipo architettonico diffuso, sono gesti piuttosto che non segni, in cui il bisogno di straordinarietà di cui è intrisa la spiritualità dell’uomo moderno trasla nella spettacolarità di un’invenzione architettonica. L’esigenza di un incontro stupefacente dice quanto la vera sfida stia nella declinazione appropriata del bisogno rituale odierno, all’interno di una riflessione complessiva che sappia mettere insieme in maniera equilibrata esperienza religiosa, natura, architettura.
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