Canali di comunità: infrastrutture come strumento di coesione
In un quartiere di Pemba, nel nord del Mozambico, un progetto di cooperazione internazionale a trazione italiana coagula temi, emergenze e fragilità, tra città, ambiente e guerre
Published 5 dicembre 2023 – © riproduzione riservata
A partire dall’ambizioso Great Green Wall (l’enorme fascia alberata in corso di realizzazione tra Sahel e Corno d’Africa), tanti progetti a sfondo ambientale trovano terreno fertile in un continente alla ricerca di risposte ai drammatici cambiamenti climatici. A Pemba, capoluogo della provincia di Cabo Delgado, nel nord del Mozambico, un progetto urbano mette a sistema gestione dell’acqua, protezione da eventi estremi, potenziamento delle aree verdi e della permeabilità dei suoli e creazione di spazi pubblici fruibili e di qualità. L’intervento, sostanzialmente concluso, ha permesso di sperimentare un approccio innovativo. L’iniziativa è della Fondazione AVSI, organizzazione non profit che realizza progetti di cooperazione allo sviluppo e aiuto umanitario in 40 paesi. La progettazione di Taxibrousse (studio parmense attivo nella Cooperazione Internazionale, con Federico Monica e Roberto Curzio). I fondi sono del World Food Programme, con la direzione di Luca Sapegno, responsabile dell’area ingegneria per il Mozambico. Abbiamo chiesto a Gabriele Tardivo, urbanista e responsabile del progetto per AVSI, e a Federico Monica, architetto, di descrivere approccio e ambizioni di un intervento emblematico.
PEMBA (MOZAMBICO). La regione di Cabo Delgado, nell’estremo nord del Mozambico, è una delle aree del pianeta in cui sono maggiormente evidenti gli effetti diretti e indiretti dei cambiamenti climatici. Da un lato una crescente imprevedibilità delle precipitazioni e l’aumento di fenomeni estremi come i cicloni, dall’altro una sempre maggiore vulnerabilità e insicurezza alimentare delle popolazioni che ha creato terreno fertile per il diffondersi di instabilità, conflitti ed episodi di terrorismo. Si calcola che a Cabo Delgado siano 1,6 milioni le persone direttamente colpite dal conflitto e quasi un milione gli sfollati interni. La città di Pemba, capoluogo della provincia, è una delle maggiori destinazioni per gli sfollati interni, in particolare il quartiere di Alto Gingone, in cui si concentra il progetto, conta una popolazione di circa 55.000 persone, una buona percentuale delle quali rifugiati da altre regioni a causa del conflitto. Alto Gingone è collocato su un ripido versante che collega l’altopiano su cui si trova l’aeroporto alla fascia costiera; l’area di circa 12 kmq si è sviluppata rapidamente a partire da fine anni ‘90 in maniera informale, in assenza di piani urbanistici e distruggendo la cintura verde della media città.
È in questo contesto fragile che s’inserisce il progetto “Improving resilience through Assets Creation activities and Home-grown school feeding of displaced and host communities in Cabo Delgado” che si propone di migliorare la resilienza urbana, sociale ed economica delle comunità e degli sfollati interni, intervenendo al contempo su altri aspetti di emergenza come la sicurezza idrogeologica e lo sviluppo urbano attraverso la metodologia del cash for work. Il progetto vuole dare continuità all’azione di AVSI, fondazione E35 e Municipio di Pemba per l’implementazione del piano urbano del 2021. L’obiettivo primario è la realizzazione di un sistema di drenaggio e raccolta delle acque meteoriche ispirato ai principi dell’ingegneria naturalistica e fortemente integrato con l’aumento della fruibilità degli spazi pubblici, l’offerta di servizi e la rinaturazione dell’area. La prima fase ha interessato 3 canali di scolo con un’estensione complessiva di oltre 1,5 km e un’area urbana di circa 16 ettari, a cui si è aggiunta una seconda fase che ha coinvolto un ulteriore canale di circa 1 km e altri 5 ettari di aree urbane.
Protezione, rivegetazione, permeabilità
Le parole chiave che hanno guidato lo sviluppo della parte tecnica del progetto raccontano un approccio leggero al concetto d’infrastruttura, nel tentativo d’impattare il meno possibile su un contesto urbano delicato e dagli equilibri ambientali e sociali fragili e di mostrare al Municipio una tecnica infrastrutturale replicabile a bassi costi e con l’impiego della comunità locale. Le soluzioni previste si basano quindi sui principi dell’ingegneria naturalistica, privilegiando materiali locali, elementi naturali e tecnologie semplici per la realizzazione della rete di canali di scolo e il consolidamento di piccoli argini di difesa. Sponde inerbite o rivestite in pietra locale, strutture a viminate, soglie idrauliche per ridurre la velocità delle acque, sistemi di captazione dell’acqua piovana nelle abitazioni sono state le soluzioni maggiormente adottate, favorendo la diffusione di competenze specifiche da parte delle maestranze locali. Un’attenzione particolare è inoltre dedicata allo sviluppo di soluzioni per favorire l’infiltrazione riducendo il volume di acqua durante gli eventi estremi. Sistemi come rain gardens, trincee drenanti o bacini d’infiltrazione vegetati si sono rivelati estremamente interessanti in un contesto urbano emergente e informale. Nelle aree informali soprattutto, in cui la scarsa presenza del verde è un problema diffuso, la creazione di giardini drenanti e aree verdi inondabili permette anche di aumentare la qualità e la fruibilità degli spazi urbani e parallelamente rendere il terreno e il sistema urbano maggiormente resiliente alle inondazioni. Il progetto ha permesso la realizzazione di oltre 1.000 mq di aree ad elevata infiltrazione, attrezzate a verde o fruibili come spazi pubblici.
Una nuova concezione del rapporto fra infrastrutture e città
Un aspetto peculiare e innovativo del progetto è la definizione di un modello d’infrastruttura “vivibile”. In contesti informali in cui la carenza di spazi pubblici o in generale inedificati è un problema concreto, la realizzazione d’infrastrutture ibride, che assolvano a più funzioni, è determinante e la loro costruzione può diventare l’occasione per ripensare funzioni urbane e servizi per i cittadini. Si è scelto, laddove le sezioni di strade e vicoli erano particolarmente limitate, di rendere percorribili dai pedoni diversi tratti di canali di drenaggio, migliorando così la mobilità interna al quartiere nella stagione secca. In molte zone la costruzione dell’infrastruttura è diventata inoltre opportunità per spazi pubblici fruibili e luoghi di aggregazione e scambio sociale, attrezzando le sponde in pietra con sedute o realizzando in alcuni snodi vere e proprie piazze ombreggiate. Un ulteriore elemento ibrido che integra funzioni idrauliche e urbane sono i bacini d’infiltrazione: aree con pavimentazione permeabile che in caso di forti precipitazioni possono essere inondate riducendo la portata dei canali di scolo, la velocità dell’acqua e i conseguenti rischi. Tali spazi sono progettati attraverso processi partecipativi. In particolare, una delle aree ospita un ampio spazio a gradoni utilizzabile come teatro all’aperto, mentre altre hanno giochi per bimbi in legno e bambù o sono una sorta di lavanderia pubblica. Il progetto ha permesso la realizzazione di oltre 600 metri di percorsi ibridi (pedonali e di raccolta acque), la sistemazione di 35 attraversamenti pedonali (ponti o guadi) e la realizzazione di oltre 650 mq di spazi pubblici. Grazie a questa molteplicità di funzioni complementari che integrano protezione, fruibilità e accessibilità, l’intervento si configura come un modello di rigenerazione urbana adatto a contesti informali nelle città dell’Africa subsahariana.
La partecipazione e il ruolo sociale e umanitario dell’intervento
L’aspetto urbano e di messa in sicurezza del territorio non è l’unico elemento portante del progetto: una delle finalità principali è quella di offrire sostentamento alla popolazione locale e principalmente ai cosiddetti IDP (internal displaced persons, cioè gli sfollati provenienti dalle regioni limitrofe interessate da episodi di terrorismo), attraverso l’accesso al mercato del lavoro. Altro importane obiettivo è quello dell’integrazione sociale tra la comunità ospitante e le persone arrivate nel quartiere a causa dei conflitti presenti nel nord del Paese. I lavori sono quindi stati realizzati da un gruppo di oltre 660 beneficiari provenienti per il 50% dalla comunità di Alto Gingone e per il restante 50% dalle comunità di sfollati interni; è interessante sottolineare come oltre il 70% dei beneficiari impiegati siano donne. Dal punto di vista progettuale questo aspetto ha comportato la necessità di definire soluzioni tecnicamente semplici, che non richiedessero manodopera specializzata e che al contempo potessero essere facilmente replicabili in contesti simili. Per quanto riguarda l’organizzazione del cantiere, si è optato per la formazione di squadre da 6 lavoratori, ognuna coordinata da un muratore o carpentiere specializzato con il compito di gestire il gruppo di lavoro ma anche di offrire una piccola formazione ai beneficiari, trasferendo competenze specifiche.
In copertina, scorcio del quartiere informale di Pemba con la realizzazione di un tratto dell’intervento di cooperazione di Fondazione AVSI e Taxibrousse a Pemba, Mozambico. Tutte le immagini sono fornite da Federico Monica
Architetto, urbanista, Ph.D. in pianificazione e progettazione urbanistica e territoriale. È specializzato nell’analisi dei contesti urbani in Africa sub-sahariana e nella definizione di progetti e programmi per il recupero e l’upgrading di slum e quartieri informali, si occupa inoltre di processi di autocostruzione e materiali alternativi e di recupero. Socio fondatore di Taxibrousse è responsabile della progettazione architettonica e paesaggistica, della pianificazione urbana, delle attività di ricerca scientifica e di analisi e studi specialistici.