A round tuit: molto tempo
Inconsapevoli vestali di una città che non ci appartiene, viviamo in spazi domestici che hanno mutato il loro senso e che condividiamo per necessità
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La città è mutata di aspetto; l’uso ne determina la forma, di questo ne siamo certi, ora più che mai. L’irrompere del Coronavirus ci costringe a sperimentare, per e in un tempo ancora del tutto indefinito, una realtà spaziale che dà le vertigini, che apre a una dimensione fisica dell’abitare per lo più inesplorata dal secondo dopoguerra e che si muove su due piani distinti, ma inestricabili.
Il primo piano è quello del tempo. Tempo per fare, pensare, agire in modo diverso, ma comunque per esistere, per capire, per conoscere, anche se stessi. Tempo per riflettere sulle nostre (fragili) condizioni umane, sul modo di usare le cose e gli spazi che abbiamo ereditato, in una città che non ci appartiene, di cui non siamo che “inconsapevoli vestali”. Siamo soltanto uno dei mattoni che la costituiscono, e in essa – nella città – assumiamo valore se viviamo insieme agli altri: singolarmente “misuriamo 5,5x12x25 cm”, tutti insieme diventiamo Urbs e Civitas, una comunità di persone. Ora possiamo gestire il tempo: a round tuit, un gioco di parole anglosassone che evidenzia l’opportunità di fare ciò che altrimenti viene lungamente procrastinato.
Questa entità astratta, che sembra scorrere a un ritmo diverso a seconda di come lo misuriamo nell’arco della giornata, plasma la percezione dell’ambito fisico nel quale siamo immersi, il secondo aspetto della mutata dimensione dell’abitare: lo spazio. Quello domestico innanzitutto, dove le categorie secondo le quali si ripartiscono gli ambienti sono annullate da un loro impiego che non ne prevede più una distinzione funzionale né temporale, secondo la consueta classificazione legata a un “fare fuori casa” per un periodo della giornata, e a un “fare in casa” per il restante. Persone, cose, attività si sovrappongono, nella sequenza delle azioni svolte e nell’appropriazione di uno spazio che sembra fluire, incontenibile, da un ambiente dell’abitazione all’altro. Si perde quell’identità della casa (house) con cui gli architetti hanno costruito il loro sapere disciplinare, l’insieme delle specificità definite intorno a funzioni, utenti, azioni, mentre la casa (home), elasticamente, si adatta alla nuova condizione.
Si perde perfino il concetto d’interno ed esterno, laddove si entra nella casa altrui vivendo luoghi virtuali che in realtà sono forme caleidoscopiche di spazi privati divenuti, malgrado tutto, comuni. L’attività lavorativa svolta nella nostra abitazione, spalancata a realtà digitali, esposta a videocondivisioni dello spazio privato, rende gli ambienti del proprio appartamento un improvvisato teatro di attività pubbliche o presunte tali. La casa, domicilio inviolabile del proprio io, per molti luogo irraggiungibile della propria intimità domestica, si apre a tutti, la si condivide per necessità.
Così come quello interno, anche lo spazio esterno cambia, anzi è già cambiato, sotto i nostri “occhi che non vedono”. Camminiamo (se costretti da necessità inderogabili) storditi per strade deserte, la cui dimensione appare d’un tratto sproporzionata nelle periferie disegnate per accogliere il traffico automobilistico, ma recuperata a una condizione ideale nei vecchi centri storici, finalmente liberi da anacronistici, autolesionistici sistemi di trasporto. La città assume nuovamente la sua dimensione umana, perfino domestica, ne mostra il lato vulnerabile, ancora più bisognosa delle nostre cure, e svela tutta la potenzialità di un compito che in questo momento non può svolgere: il ruolo formidabile e ineguagliabile di aggregatore sociale.
Privati di ciò di cui la città ci nutre quotidianamente e di cui siamo soliti appropriarci dando tutto per scontato (proprio come facciamo con l’ambiente naturale che ci circonda), c’incontriamo ad aprire le finestre e i nostri balconi a una sfera che abbiamo finora gelosamente tenuto privata; allunghiamo la mano verso un vicino di cui non ci siamo mai accorti prima, se non per lamentarcene. I media ci mostrano una città differente, in cui ci si riscopre membri di una comunità che proprio quella vita di cui ora ci sentiamo temporaneamente privati ci ha sempre fatto allontanare da noi, e che adesso, con un po’ di retorica, crediamo amica. La città, ridimensionata, sembra concentrarsi sui pochi metri quadrati dei balconi “generosamente forniti” dalla speculazione edilizia. Una città che si vive guardando come La finestra sul cortile di Hitchcock e Una giornata particolare di Scola ci hanno mostrato: a distanza.
Immagine di copertina: strada deserta nel centro di Bologna ai tempi del virus (foto di Lorenzo Gresleri)
Nato a Bologna (1971), si laurea in Architettura all’Università di Ferrara nel 1999. Consegue il dottorato di ricerca in “Architettura, Urbanistica, Conservazione dei luoghi dell’abitare e del paesaggio” al Politecnico di Milano, dove è attualmente docente a contratto presso il Dipartimento di Architettura e studi urbani. Ha insegnato all’Università di Ferrara e al Politecnico di Torino e dal 2008 svolge attività di Juror e Visiting Lecturer presso il New York Institute of Technology. Ha tenuto conferenze in Italia e all’estero ed è autore di saggi e monografie. La sua ricerca si concentra prevalentemente sulla progettazione architettonica e urbana e sul tema della casa, in particolare cohousing e abitare condiviso. Svolge attività professionale come architetto a Bologna