A distanza di sicurezza, o della prossemica
Potrà questo periodo di emergenza, che forzatamente ci fa occupare ed usare lo spazio in una maniera diversa, consentirci di capire quanto sia importante vivere in uno spazio ben organizzato e ben formalizzato?
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«Vengo dal fitto di umanità di una città stracolma», scriveva Erri De Luca, precisando: «Chiunque scende a Napoli lo sa da prima: gli capiterà di essere toccato molte volte». Esattamente il contrario accade in questi drammatici giorni: le città sono vuote e qualunque contatto deve essere evitato. Bisogna tenersi a distanza. E di distanza, appunto, voglio parlare, ricordando alcuni fatti.
Poco prima delle restrizioni comportamentali decretate, ma già in pieno allarme virus, capitavano situazioni di questo genere: negli uffici pubblici, si veniva ricevuti nei corridoi, dove una sbarra o un nastro separavano la zona degli addetti da quella degli utenti: ci si parlava da lontano e occorreva alzare la voce. In vari luoghi, per esempio nella Biblioteca nazionale, a Roma, i posti a sedere erano organizzati a scacchiera: qui si può sedere, qua no, qui sì e così via. Poi, per contenere i contagi, sono arrivati i decreti restrittivi, secondo i quali qualunque densità corporea dev’essere evitata: la distanza di sicurezza tra le persone, anti-virus, è un paio di metri. Mentre si cammina per strada, si tende a schivare chi s’incrocia, tenendosi lontani; le code per entrare nei pochi negozi aperti sono molto sgranate, e girano intorno ai palazzi; e ancora: mai, come in questo periodo, sono volati saluti e battute tra le finestre di palazzi contrapposti, densificando lo spazio interposto con quei contatti sociali interrotti in strada. Senza contatti, nessun contagio: l’etimologia è la medesima (contingere) e, guarda caso, rinvia al tatto.
E gli spazi domestici? Le misure di contenimento del virus ci costringono forzatamente a stare sempre rinchiusi nelle nostre case e mai, come in questo periodo, la rivendicazione dei propri spazi è divenuta indispensabile e, quindi, palese. Dovendo convivere in casa, occorre non infastidirsi reciprocamente; separazioni che parevano aver perso importanza, a vantaggio di commistioni funzionali e spaziali, risultano nuovamente cruciali: una per tutte, quella tra le aree individuali e quelle collettive della casa. La prossimità e la lontananza tra le persone si esprimono con chiarezza nelle attività domestiche: condivido la cucina, il tavolo da pranzo e il divano del soggiorno, ma lasciatemi in pace in camera mia, sul mio letto, dove sento la mia musica, leggo i miei i libri, chatto con il mio telefonino; e sulla mia scrivania lavoro con il mio pc (tutti questi possessivi sono, evidentemente, significativi e succedanei del possesso primario: quello dello spazio). Necessito del mio spazio. I canonici diagrammi d’uso dell’appartamento variano nei diversi momenti della giornata: per la prossima mezz’ora il corridoio diventa la mia palestra personale; prima e dopo è solo distribuzione. Le porte, ora aperte, ora chiuse, sono i preziosi strumenti che gestiscono privacy e condivisione: cioè le relazioni interpersonali e, in definitiva, l’uso e il significato dello spazio. Chi ha ampi balconi espande all’aperto alcune attività, mentre i terrazzi condominiali, fino a pochi giorni fa luoghi dimenticati e deserti, vengono adibiti agli usi più vari: palestra all’aperto, deck solare, sede d’improvvisati barbecue: un surrogato di spazio pubblico. E si affollano al punto da costringere molti condominii a regolamentarne l’accesso.
Chiediamoci: potrà questo periodo di emergenza, che forzatamente ci fa occupare ed usare lo spazio in una maniera diversa, consentirci di capire quanto sia importante vivere in uno spazio ben organizzato e ben formalizzato? E, per converso: si acquisirà consapevolezza del diffusissimo analfabetismo spaziale? E poi: passata l’emergenza, che cosa rimarrà di tutte queste esperienze? Ritornerà tutto come prima? O vi sarà una diversa percezione dello spazio? Ad esempio, una diversa percezione del rapporto tra spazio domestico e spazio urbano?
Una considerazione conclusiva. Le distanze interpersonali prescritte in questo periodo sono nuove e molto diverse – molto maggiori – da quelle culturalmente acquisite: culturalmente, perché tali distanze sono sempre elaborate localmente, nel tempo. Un anglosassone vive in un sistema di rapporti spaziali diversi da quelli nei quali vive un arabo. Dunque, geografia e storia presiedono alla determinazione delle distanze. Oggi, però, è un fattore per nulla culturale ma molto concreto – come il Coronavirus – ad alterare le distanze tra le persone e, di conseguenza, l’uso dello spazio.
Un tempo esisteva un campo di studi, chiamato prossemica, definito mezzo secolo fa da Edward Hall, che studiava il significato delle distanze tra i soggetti umani; un campo di studi sciaguratamente abbandonato; un campo di studi importante e utile per gli architetti, come ha ricordato, in tempi recenti, Juhani Pallasmaa. Importanza ribadita, pochi giorni fa, da Gianfranco Marrone su “doppiozero”. Questo può – purtroppo – essere un periodo di grande interesse per osservazioni riferibili alla prossemica.
P.S. Propongo di avviare una raccolta di casi, di esempi e di osservazioni prossemiche (meglio se integrate da foto, disegni, schemi e appunti) per costituire una sorta di Atlante spaziale dei tempi del Coronavirus e per mettere insieme del materiale utile per nuovi studi prossemici.

Nato nel 1965, è professore associato di Composizione architettonica e urbana presso il Dipartimento di Architettura di Pescara. Da parecchi anni cerca di costruire un rapporto tra architettura e antropologia. Tra gli scritti più recenti: Tessiture dello spazio. Tre progetti di Giancarlo De Carlo del 1961 (Macerata, 2014); Le indagini etnografiche di Pagano (Siracusa, 2019). Ha svolto gran parte dell’attività progettuale con lo studio GAP AA di Roma. Nel 2017 ha pubblicato un libro che raccoglie alcuni suoi progetti per Roma, intitolato: Muri/Pareti. Six projects for Rome (Melfi, 2017)